Mentre il mondo delle imprese avanza verso la riapertura dopo gli sconvolgimenti del 2020, è bello immaginare come sarà la vita quando potremo tornare tutti alla normalità. Ma la “normalità” potrebbe essere un obiettivo sbagliato. La vera domanda è diventata: che cosa abbiamo imparato da tutto questo? Esiste un modo diverso, migliore, di lavorare?
Atif Rafiq la pensa così. In qualità di ex presidente del settore commerciale e della crescita di MGM Resorts International, ha gestito un’enorme forza lavoro dislocata, dai dirigenti aziendali che sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi da casa ai concierge e al personale alberghiero che hanno continuato a lavorare di persona presso le sedi di MGM.
Sulla base di questa esperienza, Rafiq ritiene che ci sia un’enorme opportunità di ripensare il modo in cui facciamo le cose. Grazie agli strumenti digitali a portata di mano, oggi esistono alternative che hanno già dimostrato di poter produrre risultati più rapidi, efficienti e flessibili. Abbiamo incontrato Rafiq per conoscere ciò che pensa dell’anno appena trascorso e di come questo lo abbia portato a diventare un fautore della flessibilità, della concentrazione profonda e di un minor numero di riunioni.
Qual è il più grande cambiamento scaturito da ciò che abbiamo vissuto nell’ultimo anno?
Atif Rafiq: Il lavoro a distanza ha messo in discussione tutti gli aspetti dell’esperienza lavorativa, che devono essere analizzati. L’ufficio era il metro di paragone. Era il tempo libero, era il calendario. Ma anche prima del Covid-19, questo era insostenibile.
Dobbiamo pensare all’esperienza dei dipendenti. Come azienda, questa è un’opportunità per ottenere il massimo dalle persone. Entrerà in gioco la psicologia umana: la possibilità di usufruire di orari flessibili non dovrà compromettere la carriera del dipendente. La persona che può concedersi tempo libero non deve essere quella che riesce a fare carriera perché sa accattivarsi i favori del capo.
Le aziende sono state costrette a muoversi in modo incredibilmente flessibile. Quanto di questa flessibilità dovremmo mantenere in futuro?
AR: Sono un grande sostenitore di questa flessibilità. È attesa da tempo. Ritengo che l’ambiente di lavoro aziendale non sia sostenibile per gli esseri umani. Non è compatibile con la vita. E francamente, gli strumenti digitali hanno superato di gran lunga la capacità delle aziende di adattarsi o di cambiare mentalità. In questo momento i dirigenti aziendali devono fare un passo avanti e adottare queste abitudini di lavoro flessibili.
Con un cambiamento così rapido, come si fa a creare uno spazio per definire una strategia adeguata per il futuro?
AR: È essenziale offrire alle persone “tempo per pensare”. Le attività di pianificazione che il nostro personale svolge sono folli. La velocità e la portata dei cambiamenti sono persistenti e ininterrotte; ogni giorno è come se fossero tre giorni normali prima del Covid-19. Se non si fanno uscire le persone dalla routine, come quella delle riunioni, le cose non funzioneranno. Si andrà incontro a esaurimenti nervosi e a un peggioramento dei piani e delle reazioni.
Lavorare non vuol dire solo partecipare alle riunioni, ma in qualche modo siamo arrivati a una situazione in cui la cultura delle riunioni domina le organizzazioni. Ci può essere una giornata piena di riunioni che riguardano argomenti appropriati, ma non è necessariamente lo strumento di misura migliore per capire se stiamo effettivamente facendo progressi con le nostre strategie aziendali.
Ora invece possiamo concentrarci su come dare alle persone il tempo necessario per sviluppare nuove conoscenze, nuove intuizioni e nuovo capitale intellettuale per l’azienda. Questo potrebbe avvenire attraverso strumenti di collaborazione, in cui le persone si riuniscono in modo asincrono, secondo i loro tempi. Sappiamo che le riunioni sono una parte di questo processo, ma non il fulcro. Per questo motivo, in futuro, dovremo dare meno importanza ad esse e privilegiare le altre forme di collaborazione che ci aiuteranno a far progredire le nostre aziende.
Prima di MGM, lei ha guidato la trasformazione di McDonald’s e Volvo, due aziende che esistono rispettivamente da oltre 60 e 90 anni. Come si fa a plasmare una nuova cultura in istituzioni storiche come queste?
AR: Dedichiamo tanto tempo al “come” quanto al “cosa”. Poniamo domande esplicative ai membri del team, anziché dire loro cosa fare. Valutiamo insieme, invece di aspettarci piani perfetti, poi esaminiamo le persone in base alla velocità con cui le cose vengono comprese e inserite nella nostra linea strategica. Quando riusciamo a gestire i team in questo modo, il risultato è straordinario e l’esperienza dei dipendenti è di gran lunga migliore. Tutto ciò è ottimo anche per le aziende: da oltre 5 anni McDonald’s ha ottenuto un incremento dei ricavi grazie al digitale e Volvo ha utilizzato [questo approccio] per creare un modello commerciale di abbonamento che rappresenta il 25% delle auto vendute.
Che consigli ha per i dirigenti che vogliono passare alla misurazione dei risultati piuttosto che a quella delle attività quotidiane?
AR: C’è l’idea che “gli input contano tanto quanto i risultati”. Significa che bisogna spostare l’attenzione a monte, alle domande e alle risposte principali, alle incognite, alle cose che possono far sì che un risultato si verifichi o meno. Quindi il modo migliore per far sì che un risultato abbia la probabilità di concretizzarsi è quello di anteporre le domande più difficili e creare uno spazio sicuro con il tempo e gli strumenti necessari al team per affrontarle. Quando ciò accade, in genere, si ottiene un risultato che ha buone probabilità di rivelarsi corretto.
In che modo i dirigenti possono aiutare a prevenire l’esaurimento nervoso dei propri dipendenti?
AR: L’esaurimento nervoso è uno dei problemi più urgenti che i datori di lavoro dovranno affrontare nei prossimi anni, per ragioni piuttosto ovvie. Come possiamo gestirlo? Come possiamo migliorare la nostra capacità di prevenirlo? In primo luogo, dobbiamo renderci conto che le persone trovano un equilibrio tra lavoro e vita privata in modi diversi, quindi dobbiamo dar loro la flessibilità di organizzarsi come meglio credono, purché diano il loro contributo.
Il secondo fattore da considerare è la definizione delle priorità. È davvero difficile pensare a un periodo della storia dell’impresa in cui ci sono state così tante cose nuove da capire, e questo fardello sta ricadendo sulle persone. Dobbiamo quindi definire con rigore le nostre priorità. Dobbiamo creare un centro nevralgico per i team, affinché possano effettivamente perseguire obiettivi ragionevoli.
In che modo i dirigenti possono valorizzare i propri dipendenti e sbloccare, come lo chiama lei, il loro “capitale intellettuale”?
AR: Invito i dirigenti ad adottare il mantra della calibrazione rispetto al controllo. Che cosa significa? Conosciamo tutti la gerarchia e la capacità dei dirigenti di prendere decisioni che stabiliscono la direzione delle loro iniziative. La calibrazione funziona un po’ diversamente: consiste nell’invitare i team ad avere voce in capitolo, a dare input e a dialogare con loro. E ci sono solo lati positivi. I dipendenti si sentono riconosciuti e ciò soddisfa il bisogno primario degli esseri umani di essere compresi e di poter dare il proprio contributo. E, cosa altrettanto importante per l’azienda, ciò offre un contributo qualitativo molto più elevato per il processo decisionale, che consente a un dirigente senior di andare avanti con la certezza di non aver tralasciato qualcosa o di non aver fatto un’ipotesi sbagliata.
Quindi, ancora una volta, l’idea della calibrazione rispetto al controllo preserva la gerarchia decisionale nelle aziende, ma in realtà consente a più persone di contribuirvi.